Strada con paesaggio desertico che va verso l'infinito

Psychography – Dalla piscologia alla fotografia

Ma tu non avevi studiato psicologia?

E’ la domanda che tutte le persone che non sento da tanto tempo mi pongono quando scoprono – da Instagram o dal sito – che sono diventato un fotografo di professione.

A volte rispondo solamente si.

Altre volte – invece – ho voglia di spiegare tutta la storia.

E quindi ho pensato: perché non scrivere un bell’articolo a cui rimandare tutte le persone che me lo chiedono? Così, in un colpo solo, aumento il traffico e non devo più spiegarlo!

Scherzi a parte, non sempre spiego come sono passato dalla psicologia alla fotografia semplicemente perché forse la transizione non è mai stata del tutto chiara nemmeno a me.

Ma partiamo dall’inizio.

Era l’ultimo anno delle superiori, quando ebbi modo di studiare qualcosina riguardo Freud e la Psicanalisi (tipico approccio iniziale alla psicologia in senso lato). In realtà più che qualcosina, fu veramente poca roba, ma abbastanza da incuriosirmi.

Spinto dall’affascinante idea che ci fosse qualcosa nella mente di cui non siamo coscienti, mi sono interessato sempre più al mondo della psicologia, fino a decidere di iscrivermi – una volta superata la maturità – alla facoltà di psicologia.

La fantasiosa motivazione iniziale, era quella di arrivare ad essere un esperto di psicologia del marketing, laddove psicologia del marketing, si intenda con l’accezione di “arte di poter vendere qualsiasi cosa a chiunque con sottili stratagemmi psicocommerciali” (questa era l’idea, nella mia giovane mente).

Ma ben presto la grande avversione che è in me per tutto ciò che riguarda il commercio, il denaro e l’economia, si è fatta sentire. Così ho iniziato a valutare l’idea di Sua Maestà Psicologia Clinica.

E ho fatto tutto quanto il percorso ammodino: triennale a Brescia e trasferimento a Milano con conseguente Laurea Magistrale in Psicologia Clinica.
Poi ho svolto il tirocinio formativo di un anno al Policlinico San Donato, specializzandomi nel supporto dei pazienti ospedalizzati, in particolare quelli cardiopatici.
Infine, ho preparato per sei mesi l’Esame di Stato, che ho superato, con tanto di iscrizione all’Ordine degli Psicologi della Lombardia.

Anzi, a dire il vero l’iscrizione non l’ho mai fatta: vivo nel limbo di chi ha superato l’esame e non si è iscritto all’Albo per meri motivi economici annuali.

Quindi mi fa ridere quando adesso, parlando con i clienti, magari mi capita di dire che sono uno psicologo e loro sorridono come se avessi detto io mi sento un po’ psicologo.

No, io sono davvero uno psicologo, perlomeno di titolo e di formazione, solo che non faccio lo psicologo.

Perché?

Beh, il perché me lo sono chiesto molte volte. Tanti di voi avranno sicuramente provato l’emozione, talvolta positiva, talvolta negativa, di aver fatto tutto un percorso accademico per poi cambiare completamente strada.

Fra sguardi torvi da ma sei scemo? e facce tristi da tu eri perfetto per fare quello che hai studiato ci si ritrova in un baratro di insicurezza e indecisione. E si, mi dispiace, faccio parte di quelli che a diciotto anni non avevano ancora ben chiaro quello che avrebbero voluto fare per i prossimi quaranta o cinquanta.

Potrei dire che i motivi dell’allontanamento siano stati dettati dalle tristi possibilità lavorative, oppure dall’ambiente super accademico da professoroni in stile Il medico della mutua.

Potrei dirvi che una parte del mondo degli psicologi è un po’ come una frangia religiosa estremista: loro sono nel giusto, sanno qual è il bene e quale il male e sanno anche cosa è giusto che tu faccia, sempre e comunque (il ché purtroppo è assai in contrasto con la fondamentale legge della psicologia che definisce l’umiltà come caratteristica fondamentale dello psicologo).

Tutti questi motivi però – che chiaramente non mi hanno ulteriormente motivato a continuare sulla psicovia – sono solo una cornice di quella che è stata la ragione principale del cambio di rotta.

A primo impatto potrei dire che forse ho smesso di credere nella psicologia, ma mi rendo conto che ho sempre odiato le persone che parlano della psicologia come di una religione.
La psicologia è una scienza a tutti gli effetti, con il suo metodo scientifico, la sua ricerca, le sue variabili misurabili e la sua attendibilità. Non è qualcosa in cui credere o meno. Sarebbe come dire “io non credo nella fluidodinamica”.

La verità è che ho smesso di credere in me stesso come psicologo. O meglio, mi sono accorto di aver sempre desiderato fare lo psicologo e non essere uno psicologo.

Mi piaceva l’idea di essere un grande esperto della mente, con il suo studio, l’arredamento e il parquet di rovere, le sue stampe d’arte contemporanea e quel fascino da penombra con annesso sguardo languido e barba incolta (a pensarci bene forse da grande volevo fare il Gabriel Byrne di In Treatment più che lo psicologo).

Ma la realtà è ben diversa, è fatta di sacrifici, di umiliazioni, di ingiustizie sulla strada e del continuo svilimento di una figura tanto importante quando screditata come quella – appunto – dello psicologo.

Così mi sono reso conto che non essere innamorato della psicologia, ma di essere innamorato della mia relazione con essa. Un po’ come la differenza fra amare una donna e amare mostrare di stare insieme a quella donna, non so se riesco a spiegare il concetto…

Quando invece prendevo in mano una macchina fotografica, per me quella era un vera emozione. Sentivo – e sento tutt’ora – di avere in mano uno strumento che mi permetteva di raccontare, di esprimermi.

E semplicemente questo rispondeva maggiormente alle mie esigenze.

Penso che in determinate circostanze uno psicologo – qui lo dico e qui forse dovrei negarlo per paura di ritorsioni – non abbia meno responsabilità di un cardiochirurgo o di un neurochirurgo. Bisogna essere sul pezzo, ben formati. Ma mentre – entro certi ovvi limiti – un chirurgo non è tenuto ad essere una persona in pace con se stessa, lo psicologo deve esserlo. Necessariamente.

E quanti di noi sono davvero equilibrati e in pace? Ho visto decine di ex colleghi che riponevano nella psicologia speranze che avrebbero dovuto riporre altrove (forse me compreso). Chi in modo più passivo, chi più aggressivo.

Per aiutare gli altri, ad un livello veramente professionale, bisogna avere una forza d’animo e una sicurezza tale da saper guardare nel baratro senza caderci dentro.

Ad oggi parlare di baratro mi sembra esageratamente scenografico. All’epoca non lo sarebbe stato.

Ricordo uno dei numerosi episodi, che ancora adesso mi appare terrificante.

Una signora piena di energia, sulla cinquantina con due figlie, era venuta a fare un esame piuttosto “banale”.

Per una fortuita complicazione, nel giro di poche ore ci trovammo a dover spiegare alle figlie come fosse possibile che la madre non sarebbe più stata in grado di parlare né di muovere metà del proprio corpo a causa di un embolo risalito dal cuore al cervello.

Le parole d’ordine erano: SUPPORTARE LA FAMIGLIA.

A quel punto, o hai la forza di guardare negli occhi quelle persone e trasmettere ancora la voglia di credere che la vita non sia ingiusta, oppure stai fallendo.

Io questa forza non ce l’ho, e forse non ce l’ho mai avuta.

Ho paura di tutto, delle malattie, del tempo che passa, della solitudine e della morte.

Qualche mattina ho paura anche solo di guardare l’estratto conto o le fatture da pagare, figuriamoci supportare qualcuno nel momento in cui scopre che la vita a volte gioca sporco.

Così, forse per debolezza, forse per trasparenza, ho scelto di voler raccontare, perché capire non è sempre possibile. E se non sai capire, non puoi aiutare.

Arrivati qui sarebbe opportuno fare un distinguo psicologico fra la fotografia come strumento per raccontare se stessi e come via per rifuggire la propria vita e raccontare quella degli altri, ma credo che diventerebbe tutto molto complesso.

In definitiva, quello che voglio fare è raccontare quello che succede. Che sia giusto, sbagliato, bello o brutto. Voglio avere la possibilità di esprimere questo, ma senza avere l’onore e l’onere di spiegare cosa è giusto e cosa è sbagliato.

Alla fine si riduce tutto a una semplice questione di onestà intellettuale, di pura e semplice coerenza.

E cosa altro abbiamo nella vita per sentirci persone di valore o meno, se non la coerenza?

 

 

P.S.: Qualche tempo fa, parlando della realtà lavorativa di oggi, una bella persona mi ha espresso un concetto piuttosto importante, riassumibile all’incirca così:

In un mondo in cui ostentazione ed artificiosità la fanno da padrone, è fondamentale, per noi che non vi apparteniamo, trovare il modo di esprimere se stessi.

La capacità di trasformare questa “umanità” in qualcosa da raccontare, diventa un valore aggiunto ovunque, nella vita privata e sul lavoro.